Maxiprocesso Nebrodi, la Cassazione conferma l’impianto accusatorio. Antoci: «Una vittoria dello Stato contro le mafie dei pascoli»
La decisione della Corte di Cassazione ha rappresentato un passaggio cruciale nella lunga battaglia dello Stato contro la criminalità organizzata dei Nebrodi: l’impianto accusatorio del maxiprocesso nasce infatti da un sistema di indagini che, per la prima volta in maniera organica, ha smascherato l’infiltrazione dei clan nel lucroso settore dei terreni agricoli e degli affitti collegati ai contributi europei. Un fenomeno criminale che, per anni, aveva garantito alle organizzazioni mafiose introiti milionari attraverso false dichiarazioni, intestazioni fittizie e pressioni territoriali.
La Suprema Corte, confermando l’architettura del lavoro sviluppato dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, ha reso definitivo un quadro probatorio che attribuisce precise responsabilità agli imputati, riconoscendo la fondatezza delle condanne emesse in appello. È un pronunciamento che rafforza l’opera investigativa condotta dai magistrati e dalle forze dell’ordine, impegnati in un’inchiesta complessa che ha richiesto anni di monitoraggi, analisi documentali, intercettazioni e sequestri.
Tra le voci che hanno accolto con soddisfazione la decisione della Cassazione figura Giuseppe Antoci, già presidente del Parco dei Nebrodi e ideatore del “Protocollo Antoci”, divenuto in seguito un modello nazionale per contrastare le infiltrazioni mafiose negli appalti e nell’accesso ai fondi europei destinati all’agricoltura. «Le condanne», ha dichiarato Antoci, «confermano il buon lavoro svolto dalla magistratura di Messina e dalle forze dell’ordine».
Il contributo di Antoci è stato determinante: il protocollo da lui elaborato — recepito nella normativa nazionale con la riforma del Codice antimafia del 2017 — ha introdotto controlli più stringenti sulle aziende agricole che richiedono contributi europei, rendendo assai più difficile per le cosche accedere ai finanziamenti destinati allo sviluppo rurale. Una svolta che ha inciso profondamente sugli equilibri criminali del territorio, tanto da trasformare Antoci in un obiettivo della mafia, come dimostrò il tentato attentato del 2016, dal quale riuscì a salvarsi grazie all’intervento tempestivo degli uomini della scorta.
La fotografia istituzionale diffusa in queste ore — con magistrati, forze dell’ordine e vertici investigativi riuniti attorno allo stesso tavolo — restituisce l’immagine di una battaglia condotta in modo compatto, nella consapevolezza che la mafia non si contrasta soltanto con la repressione penale, ma anche con strumenti amministrativi capaci di bloccarne l’accesso ai circuiti economici legali.
Il maxiprocesso Nebrodi, uno dei più vasti celebrati in Sicilia negli ultimi anni, non riguarda soltanto la punizione dei colpevoli: rappresenta il segno di una nuova consapevolezza istituzionale, che unisce legalità, gestione del territorio e tutela delle risorse pubbliche. La conferma della Cassazione assume dunque un valore che va oltre il singolo procedimento: dimostra che lo Stato, quando agisce con determinazione e coesione, può spezzare meccanismi criminali radicati e restituire ai territori dignità, sicurezza e prospettive di sviluppo.
In questo quadro, il “metodo Antoci” — oggi riconosciuto anche a livello europeo come buona pratica amministrativa — continua a rappresentare un riferimento centrale nella lotta contro le mafie dei pascoli e contro ogni forma di infiltrazione criminale nell’economia rurale.
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